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mercoledì 23 settembre 2020

Stranieri in patria, quelli che denunciano. C’è chi fa esami farsa e chi sfida le nostre mafie

Proprio nei giorni dello scandalo dell’esame farsa di italiano all’Università per gli stranieri di Perugia del calciatore uruguaiano del Barcellona Luis Suarez per ottenere la cittadinanza italiana e così il passaporto tricolore e probabilmente la maglia bianconera della Juventus a suon di milioni, in un’altra porzione d’Italia la notizia della caduta dell’Impero dei mercati ambulanti “romani” dei Tredicine arrivata grazie ad un cittadino del Bangladesh che nel 2018 aveva fatto scattare le indagini dopo una denuncia. 

 (Alessandro Danese)

 

"Ogni volta…”  Napoli, 19 settembre 1959

“Sono stranieri in patria”, quelli che denunciano, perché paura e omertà vanno ancora a braccetto ed è più semplice e meno scomodo gridare al silenzio altrui con le classiche finestre chiuse all’occorrenza, stereotipo delle lontane terre di mafia, che al nostro. Quel silenzio per il malaffare che cova ed emana fetore magari proprio sotto le nostre finestre. Stranieri in patria, perché a denunciare le mafie sono ancora in pochi e si, sono spesso nostri concittadini stranieri, immigrati in Italia da anni ma non ancora italiani, stranieri che forse più di molti "italiani che si sentono di razza" considerano questo Paese "casa". E questo, proprio nei giorni che vedono alla ribalta delle cronache lo scandalo dell'esame farsa del calciatore Luis Suarez per ottenere la cittadinanza italiana e così il passaporto tricolore e probabilmente la maglia bianconera della Juventus a suon di milioni, deve ancor di più farci riflettere: stesso Paese, stesse leggi, vite parallele, ancora troppe vie preferenziali, e sempre per gli stessi. E nella giostra del nonsense totale, parallelamente c’è un sistema Paese che spinge per ottenere passaporti facili ad esclusivo pregio del mondo del calcio e un sistema che combatte il malaffare e le mafie proprio grazie a quegli stranieri che cittadini italiani forse non lo saranno mai: un calcio in faccia alla giustizia e alla legalità.
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Eppure siamo ancora il Paese dove il “la mafia non esiste” in uso per decenni, si è trasformato nell’ancor più pericoloso “non esiste più come una volta” o almeno “non in questa città, paesello o quartiere” perché ancora oggi è più facile guardare al malaffare lontano e scandalizzarsi che aprire gli occhi su quello che abbiamo attorno. E sempre più spesso sembra proprio che ancora in troppi “non vedano, o non sapevano o andavano troppo di corsa per accorgersene” di quanto il malaffare spesso lo abbiamo sotto al naso. Ma forse è proprio così: la cosa più triste è che abbiamo imparato a prevenire il problema “del vedere qualcosa che poi può diventare scomodo”. Abbiamo forse imparato a capire automaticamente quando è il momento “giusto” per girarsi dall’altra parte, perché è meglio non vedere proprio che vedere e stare zitti, almeno per il primo strato di quella coscienza rimasta e per la buona pace di se stessi: abbiamo compiuto una sorta di “level up” nelle “skills del farci gli affari nostri e tirare a campare senza problemi”. Eppure a suonarci la sveglia in una città come Roma sono “quelli che vengono da fuori”: dai ragazzi dell’associazione antimafie “da Sud”, arrivati dalla bassa penisola o dalle isole con il loro impegno tangibile tra eventi ed iniziative istituzionali ma soprattutto calcando le strade e le piazze dei quartieri, e ancora i “giornalisti giornalisti” impegnati nella lotta alle mafie che, nonostante le minacce e le ritorsioni subite, ne raccontano le tristi gesta, gli affari criminali e per fortuna anche  gli arresti e le condanne, fino “addirittura” ai cosiddetti “immigranti”: tutti stranieri in patria che le mafie e il malaffare di quartiere li denunciano aiutandoci ad avere meno paura e un po’ più di consapevolezza e coraggio. E’ una questione culturale. L’ultimo, il caso del cittadino del Bangladesh che nel 2018 ha denunciato il racket delle bancarelle di Roma dei Tredicine da cui poi è partita l’indagine giunta alle cronache di questi giorni: "Da circa 12 anni, sia lui che il fratello" erano "costretti a pagare mensilmente rilevanti somme di denaro per poter lavorare con le loro licenze nelle migliori postazioni di vendita - riporta l'ordinanza del Gip Patrone - e ciò anche più volte a settimana, nonostante il regolamento comunale prevede che lo stesso banco non possa essere installato nella stessa postazione per più di due volte a settimana". In particolare, l'uomo ha riferito di essere stato costretto "a pagare ogni mese per poter usufruire di buone postazioni di vendita (aggirando la regola della rotazione) circa 4mila euro al mese (ridotti a 2.500 nei mesi di gennaio, febbraio ed agosto in ragione del fatto che si lavora meno)". Riflettiamo!!! Grazie cittadino del Bangladesh.

Due anni fa, era stata la volta di Roxana Roman, 34 anni, cittadina romena che insieme al marito Marian, denunciò alcuni esponenti della famiglia Casamonica dopo che il primo aprile del 2018 il suo bar alla Romanina fu teatro di un'aggressione da parte di alcuni Casamonica ai danni del marito e di una cliente. Roxana è stata nominata Cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, titolo conferitole dal presidente Sergio Mattarella “per il suo contributo nell'affermazione del valore della legalità”. Roxana alla paura ha affiancato tanto coraggio. Drammatica la sua testimonianza al processo. "Ho paura di uscire da casa, i familiari dei Casamonica hanno preso informazioni sul mio indirizzo". "Nessuno si è opposto – ribadì - nessuno dei presenti ha fatto nulla mentre mi aggredivano”. Dopo la condanna a sette anni di Antonio Casamonica, Roxana ci ha ancora ricordato e regalato un po’ del suo coraggio: "Chi subisce deve denunciare". Grazie cittadina romena.

Lo stesso fece Medhi Dehnavi, marmista iraniano che per primo sfidò i Casamonica. Nel 2010 dopo aver eseguito dei lavori sempre per i Casamonica per cui non venne pagato denunciò tutto, dalle pressioni continue, alle violente aggressioni subite. In molte interviste Medhi Dehnavi ha sempre ricordato che “il cittadino deve denunciare, ma che lo Stato deve fare la sua parte”. Grazie marmista iraniano.

Dobbiamo avere meno paura, un po’ più di consapevolezza e di coraggio. E’ una questione culturale. Nonostante la grande esperienza, abbiamo ancora molto da imparare e questi “stranieri in patria” ci possono insegnare tanto.

 

“E ogni volta che mi sveglio
Ogni volta che mi sbaglio
Ogni volta che sono sicuro e
Ogni volta che mi sento solo
Ogni volta che mi viene in mente
Qualche cosa che non c'entra niente
Ogni volta…”  
Napoli, 19 settembre 1959

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